25/04/24

Momenti di assenza



KRISTJAN RANDALU TRIO

“ABSENCE”

KRISTJAN RANDALU  PIANO      NELSON VERAS  CHITARRA      MARKKU OUNASKARI  BATTERIA

ASCOLI PICENO – COTTON LAB  [Cotton Jazz Club Ascoli]    19. 4. 2024  h21



 

       Pensavo fosse un trio strano. Ci sono - ma non è una barzelletta - un estone, un finlandese (due dirimpettai del freddo quasi vicini di casa, quasi russi), con in mezzo un brasiliano che non sembra brasiliano. Tre giovani ad occhio della stessa età, nerovestiti come usano gli architetti. Mai visti e mai sentiti prima (o sono sempre io l’impreparato, come a scuola). E senza contrabbasso – che intanto mi pare una strana “assenza”. Nella penombra del non pienissimo silenzioso Cotton, stasera ci si guarda e ci si saluta più col sorriso che con le parole (che strano, si son dimenticati d’accendere quel buon jazz d’accoglienza…), tra ombre che si cercano, che indugiano dove sedersi, che forse pensano: “ABSENCE”, cosa sarà che manca?


       No, al concerto non mancherà niente, anzi. Saranno tutte presenze (“presence”?) consapevoli di bellezza di ascolto di giusta e rara musica: indispensabili momenti di assenza del superfluo, che normalmente ci mancano perché ce li fanno mancare, o ce li rubano. 

Poi, non serve raccontarlo questo (strano) trio - almeno io non so farlo - anzi penso sia impossibile: il piano di Kristjan Randalu che irradia musica autoprodotta, improvvisata, romantica e abbagliante, rigorosa e asburgica, lirica e jazz (somiglia un po’ – essendone anche profondamente diversa – a quella di Keith Jarrett), che sembra suonata su 2 pianoforti distinti - uno di circa 3 ottave l’altro di 4 - in qualche modo “comunicanti” manco fossero i famosi vasi di Stevino…[una parte dei bassi del primo funzionano spesso anche da mezzo contrabbasso - che non c’è - mentre le note dell’altro mezzo contrabbasso mancante fuoriescono dalla chitarra di Nelson Veras!].

 

La batteria di Markku Ounaskari, che con leggerezza crea continui spazi liberi per la mente piuttosto che ritmiche divisioni o confini, evoca (immagino, non ci sono mai stato) popolari presenze di tradizioni e storie di Finlandia, di vite da romanzi russi, con slarghi paesaggistici di meditazione del Grande Nord. Mai Markku bastona i piatti, piuttosto li sfiora con le punte! In mezzo, la semiacustica di Nelson Veras che non si è mai fermata, anche perché essendo lei la terza solista su tre, nessuno spartito glielo ha permesso. Kristjan la coinvolge in tutto, dai complicati contrappunti aerei all’imperioso protagonismo confortante di (mezzo) contrabbasso.

 

Assenti gli accordi fascinosi ma arrembanti alla Jimmi Villotti, niente tracce di Sudamerica, ma decise sonorità di pianoforte, arpeggi d’acqua, dissonanze, per visioni e silenzi e rumori di foreste e di laghi… E a riprova che il movente del jazz è ovunque ci sia ansia e coraggio di liberazione e sperimentazione, Randalu, da solo, ci offre anche il “suo” Schumann delle canzoni romantiche, forse più alla mano per noi. Interpretandolo sempre nella scia della sua formazione classica, ne emerge un ritratto oltre il limite della scena rituale, pieno di astrazione, di poesia, di assenza.  


E’ l’essenza del jazz nordico, cui non manca niente.


  

PGC - 25 Aprile 2024

22/04/24

IL CORPO È UN PAESAGGIO



Foto ND


“Land of Body” 

(Krajina těla)

 

Soggetto, regia, coreografia:  Radim Vizváry

Drammaturgia: Hana Strejčková

Musica: Robert Jiša

 

Národní Divadlo (Teatro Nazionale) 

Laterna Magica


Praga


12 Aprile 2024 h20


Un poco ci riguarda
il movimento della luna.
Il nostro corpo è d’acqua,
di nuvole fra poco
(Franco Arminio, in Cedi la strada agli alberi)


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“Testimonianza dell’esistenza, territorio protetto e al tempo stesso selvaggio”: è il corpo umano  - nelle parole di H. Strejčková - deposito di saperi e memorie ma anche humus fertile per l’innesto di nuove colture e vita. E del paesaggio, che percepisce e al quale simultaneamente appartiene, il corpo umano è metafora: i suoi cicli esistenziali sono quelli stessi della natura, a questa è intimamente connesso, ne condivide le sorti, ne determina  la storia.

 

Misterioso laboratorio, il corpo, centro ispiratore di uno spettacolo che è “poesia visiva”, celebrazione di quel Land of Body che con la natura ha in comune bellezza e vitalità, fragilità e vulnerabilità.

Del corpo umano - che al pari del paesaggio è armonia e disarmonia, simmetria e asimmetria, lotta per la sopravvivenza, stratificazione di esperienze – sono su questo palco tre generazioni di artisti a disegnare la parabola esistenziale, il ciclico avvicendarsi delle stagioni. 

Sono la coppia di danzatori della vecchia generazione le cui abilità sono impresse nella memoria corporea in quel modo indelebile e carismatico che supera i limiti fisici dell’età; sono i giovani danzatori-acrobati nel pieno delle loro potenzialità spinte al limite delle capacità fisiche; e la bambina, infine, che sostituisce la nuova generazione alla vecchia perchè la vita continui lungo lo stesso asse.

 

La bambina, i danzatori acrobati, i ballerini più anziani: una “galleria della fisicità”, aggregata - quasi  un mosaico - da coreografie comuni mentre la tecnica cinematografica moltiplica attraverso undici schermi – non accessori ma componenti integranti della scena - le parti e le movenze del corpo umano in arabeschi e geometrie in tutto simili agli elementi della natura e del paesaggio: le dita intrecciate sono catene montuose, la muscolatura di un torso una morbida pianura, un’iride è il fondo di un vulcano…

L’energia esplosiva che promana da ogni movimento - di precisione millimetrica - degli artisti, maestri nelle rispettive discipline, trova in questo laboratorio sperimentale del Teatro Nazionale che è il “Laterna magica” - destinato fin dal suo concepimento alle produzioni d’avanguardia - il contenitore ideale per accogliere la permeabilità di generi artistici differenti e unire trasversalmente danza classica e contemporanea, pantomima, teatro fisico, tecnologie cinematografiche, acrobazie aeree.

 

Ma non è solo perfezione tecnica ciò che arriva allo spettatore, né solo il livello artistico degli interpreti, così elevato da attraversare il biancore asettico della scena e dei costumi per trasformarsi in energia emotiva che calamita il pubblico e ne coinvolge ogni fibra. 

È anche, nel celebrare il legame intrinseco con la natura – affidata ai linguaggi diversi del corpo e dell’arte – l’evocazione di quel kalòs kai agathòs che il pensiero greco volle, in antico, essere principio di armoniosa unione di virtù morali, spirituali e fisiche. 

 

E, ineludibile, nasce la spinta a interrogarsi sulla distanza: quella che le nostre presunte civiltà hanno tracciato, incolmabile ormai, fra la natura – materno utero e tempio inviolabile - e la nostra arrogante infinita fragilità.


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perché è caduto il respiro che univa l’uomo alla pena
dell’uomo
l’uomo alla difficile fragranza della terra.
(G.Dimarti, in Il tempo che ci siamo dati)
 
Sara Di Giuseppe - 20 aprile 2024
 

21/04/24

"PARTEBELLO", il PARTEnone d'acciaio di via MONTEBELLO

[della serie: le pessime e/o scomode idee di PGC]

    PARTEBELLO. Nella forma, evocherebbe il caro nostro vecchio "Mercato della Verdura" tutto cemento ed eternit ingiustamente demolito, ma ristilizzato e interamente d'acciaio [S 275 o S 355]. Progettato e realizzato, nel caso, dalla stessa premiata ditta che sta rumorosamente costruendo la tecnologica torre abitativa d'acciaio per ricchi di viale De Gasperi (ex villa Cicchi, o "casa rosa").

    PARTEBELLO. Leggero, iconico, artistico, inatteso, utile, eterno! Vagamente tempio greco e insieme post-industriale, ma non di design. Color arancio-rosso come il Golden Gate Bridge di San Francisco, da nuovo; con l'impegno e la voglia - con una festa - di cambiargli colore ogni tot anni (giallo ocra, celeste, verde menta, lilla, rosso opaco, grigio ardesia... ), come fanno - con palette di colori ben più prudenti - con la Tour Eiffel al momento delle obbligatorie cicliche manutenzioni. Per tetto una tecnologica veloce copertura scorrevole elettroidraulica. Tipo Wimbledon.

    PARTEBELLO. Niente piante fiori e alberi, qui ogni verde muore. Invece, per rappresentanza, 2 grandi palme finte, pure d'acciaio. Nè asfalto né porfido per pavimento, piuttosto robusta resina colorata antiscivolo. PARTEBELLO, verso nord, potrebbe contenere una piccola finta vasca-piscina di città [la stessa simil-acqua già pensata per l'ex "casa rosa"], circondata fin nella strafficata via Montebello da cento ombrelloni tipo spiaggia raffiguranti le gloriose vecchie vele sambenedettesi ad uso anche "commerciale": buoni per il mercato del venerdì. [Ehi, chi tocca il mercato muore!]

    PARTEBELLO. Non partirebbe bello, questo insolito PARTENONE d'acciaio di via Montebello vicino alla brutta Stazione? Macchè. Ditelo. 

PGC - 17 aprile 2024

18/04/24

“Vengo da un altro mondo e tu mi sogni”

 

“La Sylphide”

Coreografia    Johan Kobborg

                           Musica   Herman von Løvenskjold

 

Corpo di ballo del Teatro Nazionale di Praga 

Orchestra dell’Opera Nazionale di Praga

 

Teatro dell’Opera

PRAGA

 

10 Aprile 2024 h19


 

 

Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni

 

(W.Shakespeare,  La tempesta)



Sono una silfide, vengo da un altro mondo e tu mi sogni, sussurra all’orecchio del giovane James la lieve creatura d’aria e di vento, fantasma o figura reale chi può dirlo. Danza per lui, che se n’innamora perché l’anima inquieta lo spinge in un altrove visionario, al di là di ciò che è terreno. Ma l’alata creatura d’aria e di vento non può essere afferrata, perché “se tocchi un sogno, il sogno muore”: muore la silfide con le sue ali cadute nell’abbraccio mortale, e muore colui che nell’amarla la perderà per sempre.

 

C’è nell’ottocentesca fiaba struggente e tragica tutto il romanticismo nordico col suo corredo di atmosfere ossianiche e di leggende gaeliche: c’è il cupo maniero in Scozia – dimora dello sventurato James - e c’è il bosco della strega cattivissima Madge con la sua corte di streghe cattive almeno quanto lei, con tanto di sabba e pentolone dove ribolle ogni sorta di pozione – niente di salutistico, da scommetterci -  e ci sono i voli notturni delle aeree silfidi dei boschi, creature dell’aria che ben poco possono per migliorare l’atmosfera…

 

Paradigma di un rinato bisogno di spiritualità, è quest’universo misterioso e magico ad irrompere anche nella danza e a fare della Sylphide - dalla versione pionieristica dell’italiano Filippo Taglioni a quella definitiva del danese Auguste Bournonville per il Balletto Reale di Copenhagen (1836) – l’archetipo del balletto romantico, prima ancora dell’altro balletto – archetipico anch’esso - Giselle: il linguaggio coreutico e la tecnica stessa della danza, profondamente innovati dal rivoluzionario “metodo Bournonville” saranno d’ora in poi luogo dell’agire eterno - non solo romantico - del dissidio incomponibile tra reale e ideale, del contrasto tra mondo materiale e universo sovrannaturale.

 

Nella versione coreografata da Johan Kobborg per prestigiosi teatri del mondo e ora alla State Opera di Praga, l'idioma della danza disegna l’irrisolto dualismo dell’anima romantica: e il Sehnsucht – il "male del desiderio" – del giovane protagonista incapace di aderire alla realtà contingente e da cui fuggirà infatti per inseguire tragicamente la sua Silfide, finisce per spogliarsi del connotato fiabesco e farsi elegia dell’irraggiungibile, del sogno come infinita ombra del vero.

 

Due mondi contrapposti che il vocabolario della danza disegna e la partitura musicale evoca, in perfetta reciproca simbiosi.

 

In quello reale si dipana la trama giocosa e festante delle nozze imminenti e che mai avverranno tra il giovane James e la dolce Effie, si dispiegano il vigore giovanile e l'ardore dell’eros nella coralità dei riti sociali, delle danze dagli echi folklorici: un mondo di vitale esuberanza che la fisicità dei danzatori - interpreti a tutto tondo - esalta e fonde con grazia naturale alla trama sonora; in mezzo, come silenti acque carsiche, scorrono l’intima insopprimibile irrequietezza del giovane James (Adam Zvonař), il presago turbamento della promessa e mancata sposa, la dolce Effie (Olga Bogoliubskaia), la baldanza compressa del rivale in amore (Francesco Scarpato).


Nell’altra dimensione, quella misteriosa ed onirica dell’intero secondo atto, ecco la levità della Silfide (Irinia Burduja) ecco il gioco tenero e ambiguo della seduzione, ecco la conquista dell’amore predestinato e impossibile, il sortilegio malefico della strega Madge (Miho Ogimoto); ecco infine, unica vincitrice, la morte. 


Grazia, leggerezza, perfezione tecnica sono la cifra di questi luminosi danzatori, nell’intensità con cui disegnano la parabola tragica dell’amore distruttivo: fiaba romantica eppure senza tempo, quella della Sylphide, dove né il  sogno si tramuta in realtà, né le aspirazioni si compiono; dove la felicità è fantasma leggero fatto d’aria e di vento e la sconfitta, ancor prima che dell’eroe romantico è quella, eterna e sempre uguale, dell’uomo.

 

Sara Di Giuseppe - 17 aprile 2024

13/04/24

Papaveri e papere... e paperelle

San Benedetto, foce inquinata dell'Albula, micro-oasi spontanea di papere (anatre) 
 
    Povere papere e paperelle - di cui almeno 4 neonate - costrette da noi papaveri alti alti alti a sguazzare in quest'acqua nerissima quasi stagnante, inquinatissima, puzzolente e sporca di tutto! Ma loro non protestano, non chiamano i sindacati-paperi della CGIL, né l'ASL, né la stampa-papera (tempo perso, lo sanno). Non frignano neanche con i cittadini, c'hanno paura, qualche fetente ha tentato più volte d'avvelenarle. D'altra parte son state loro a scegliere questo posto, valle a capire. Avessero ragione? qui sicuro mica saranno sparate come alla Sentina o nei "campi di grano" delle campagne vicine. Sarà come sarà, scambiando I'Albula per un "ruscello" (errore!!!) ci son rimaste, pare che un paio di loro, incinte, erano stanche di volar migrando... Così da alcuni giorni la piccola colonia di papere (pardon, anatre) è cresciuta di almeno 4 graziose paperelle multicolor, che ne fanno di tutti i colori come i bambini. Nuotano, giocano, corrono inciampando sulle rive, vanno sott'acqua, beccano, si puliscono da sole le piumette, fanno "qua qua qua..." quei loro acutissimi versetti (non satanici). Ah, fossero "umane", in quest'acqua sarebbero già tutte morte stecchite. 

Qualche sfaccendato papavero-alto-alto-alto del luogo le (s)guarda dal ponte, tra cui anch'io che faccio le foto contro sole (che non vi mando). Ma le performance di questi animaletti interessano poco i pensabene che tirano dritto con le facce ingrugnite, mentre i rari bambini ancora curiosi trovano d'ostacolo le grosse balaustre di pietra del ponte. Fortuna che vicino al lungo imbuto di cemento dell'alveo del torrente c'è sempre il volenteroso pensionato standard che "semina" cibo da un cesto. Però a terra, o nell'acqua zozza, alle papere ne arriva poco: se lo rubano al volo i famelici piccioni del porto, pure qualche gabbiano - "Sciò! jè-t-v vìii! facètele magna', ssì pà-p-r-... " 

Ma le paperelle, si sa, s'accontentano anche solo delle molliche di rimbalzo. Un po' come noi, che in questi tempi bui ci consoliamo e quasi ci saziamo delle (belle e buone) "molliche" di Vincenzo Mollica in mostra qua a pochi metri nella Palazzina Azzurra. Che c'entrano le paperelle? C'entrano, c'entrano, come ce ne sono anche nel catalogo "Scarabocchi in libera uscita" nelle pag. 128, 129 dedicate da Andrea Pazienza a Vincenzo Mollica. In effetti, fuor di metafora, le papere e paperelle siamo noi, mentre i potenti, i politici, chi comanda, chi ci amministra... chi se ne frega delle condizioni igieniche e sanitarie dell'Albula... sono i Papaveri alti alti alti. S'intendeva così anche nella allusiva canzoncina "Papaveri e Papere" di Nilla Pizzi del '52, in cui c'era soave leggerezza canterina ma anche per niente velata satira politica contro i potenti: i Papaveri alti alti alti, appunto. La censura non se ne accorse o lasciò perdere, pensa. Oggi rischi di più. Alla dolcissima paperella gialla dell'Albula quindi non resta che dirle: "sei nata paperina, che cosa ci vuoi far?”.
 
PGC - 12 aprile 2024

05/04/24

La forzata metamorfosi del Ballarin sarà un “ecocidio”, un ecoreato, un delitto contro l’ambiente


       “La Costituzione riconosce l’ambiente tra i diritti fondamentali. Quindi l’iniziativa economica privata (e peggio pubblica) non può mai svolgersi in modo da arrecare danno all’ambiente e alla salute. Entro due anni, in tutta l’Unione europea sarà punito l’”ecocidio”. Lo ha stabilito la seconda direttiva comunitaria sugli “ecoreati” appena approvata… […] Si prevedono pene da 9 a 20 anni”. (Gianfranco Amendola, FQ 4.5.’24)

       Quindi, poiché è prevedibile che fra due anni la forzata metamorfosi del Ballarin - la “canalata pazzesca” - sarà o un’incompiuta o una ciofeca finita male, a San Benedetto si sarà commesso un ecocidio. Finalmente punibile: non sarà difficile dimostrare che la sciagurata farcitura di un dismesso ma immacolato campo di calcio con opere inutili, invadenti e peggiorative per il già compromesso habitat urbano, si configura precisamente come un grave delitto contro l’ambiente.

       Chi ancora non sa o vive su Marte vada a guardarsi il progettone dell’archistar e le affannose integrazioni dell’amministrazione per accontentare chi conta, chi vota, chi minaccia… Ascolti le bugiarde rassicurazioni di chi non mantiene mai. E magari mediti e rida piangendo, sul finto (?) Pesce d’Aprile di quello scavezzacollo di giornale indigeno on-line che - pensando di far lo spiritoso - ha ben elencato quasi tutto quello che vogliono ficcarci nello spazio di un mezzo campo di calcio (e l’altra metà, parcheggio!?). Per non parlare della fruttuosa dilapidazione ciclica di fondi pubblici.

Ma siamo ancora in tempo per fermarci, fare marcia-indietro, annullare tutto, adesso che da ogni lato vediamo il nostro Ballarin VUOTO come mai l’abbiamo visto. Guarda come cammina libero lo sguardo, senza scontrarsi subito con qualcosa di brutto o di volgare. 

Guarda per terra, come sarebbe bello e inebriante un semplice prato - come c’è stato per cent’anni! - da andarci scalzi, da farci capriole… Sarebbe il primo VUOTO URBANO di San Benedetto, forse replicabile anche altrove (ma come questo chi ne ha più…). Un VUOTO necessario per campare meglio, senza continuare a ingolfarci di optional edilizi che sono catene, senza ancora costruire, commerciare, crescere, spendere, inquinare, inquinare!… Senza compiere “peccati ecologici” che sono crimini come quelli contro la pace (copyright Papa Francesco).  

E senza meritarsi condanne fino a 20 anni per “ecocidio”.

PGC - 5 aprile 2024

30/03/24

ESSERE ALTROVE

Roma Tre Orchestra

Kosovo Philharmonic Choir

 

“Intorno al Requiem”

 

Wilhelm F. Bach - Sinfonia in Re minore F 65

Wolfgang A. Mozart - Ave Verum Corpus in Re maggiore K 618

Wolfgang A. Mozart - Requiem in Re minore per soli, coro e orchestra K 626

Aula Magna “B.Croce”

Università degli Studi di Teramo

25 marzo 2024 h 20.30

(la Riccitelli)

 

 

Esser presi per incantamento e trasportati altrove: si può, quando la musica è questa.
 
Se è il mozartiano Requiem in Re minore K 626 potremmo in un momento qualsiasi della serata sollevarci da terra e noi e questa sala entrare magicamente in orbita, e non ce ne accorgeremmo. 
[Restiamo invece qui, per ora: Aula Magna dell’Università degli Studi di Teramo dall’acustica sbagliata, dalle sciatterie inaspettate – per esservi una Facoltà di Scienza della Comunicazione! – come l’editto vescovile (anno 1165) trascritto meccanicamente sulla parete di fondo con spaziature lasciate del tutto al caso, con effetto straniante; restiamo in questi spazi segnati ahimè da scarsa pulizia; in questo Campus perimetrato da ferrose recinzioni da prigione o da stadio, sviluppato in arroganti geometrie di cemento e d’acciaio distillanti tristezze di carcere o di ospedale. Dentro e fuori.]
 
Due formazioni eccellenti, stasera, orchestrale e coristica - anche giovani e, specie la seconda, numericamente poderose - che insieme sono più del pubblico in sala, quasi tutto diversamente giovane. Bizzarro, no? In un polo universitario che t'immagini debba calamitare da città e dintorni tanto ascolto e tanto pubblico, vario e di ogni età. In un capoluogo di provincia che ha uno storico Conservatorio Musicale. 
Sarà colpa di questo complesso la cui bruttezza dovrebbe essere reato federale, scaraventato lassù tra ragnatele di stradine dove perfino il volenteroso navigatore - che inglesizzando pronuncia incredibilmente Teramo “Ist” - recalcitra e fa il prezioso e non vuol saperne di arrivarci e di farci arrivare?… Chissà.
 
Non importa (o anche sì). Perché non appena Bach figlio - Wilhelm Friedemann - riempie di musica lo spazio, e ogni angolo della sala semivuota ne accoglie l’appassionata sinfonia, siamo a Dresda la bella, siamo tra le navate gotiche della sua Santa Sofia ormai scomparsa, dentro la solenne severa malinconia forse presaga – tanto tanto tempo prima – della tragedia futura.
E subito dopo la grazia espressiva del gioiello mozartiano “Ave Verum Corpus”, nella rigorosa eppur toccante linearità, ci prepara – ma non si è mai davvero preparati, quando la Bellezza ci travolge – alla tempesta del Requiem.

Ed ecco il Coro poderoso, ecco i quattro eccellenti Solisti, ecco la valentissima Orchestra al gran completo innalzare davanti a noi questa cattedrale immensa di suoni dove umano e divino si toccano, dove finito e infinito si cercano in irrisolta tensione alla salvezza. 
Il Dio che giudica e il Cristo che salva, il dolore del singolo e dell’umanità tutta, la luce e la tenebra, la dannazione e la salvezza, la terra e il cielo: tutta l’altissima divina architettura dell’opera è restituita qui dall’intensità folgorante delle voci, dal magnetismo degli strumenti sapienti. 
Le atmosfere sonore, le movenze riflessive e quelle potentemente drammatiche, l’incalzare massiccio del coro e il far spazio alle voci e agli strumenti solisti, il tragico che trascolora nella poesia della preghiera, l’orchestrazione che si slancia verso il trascendente e si china poi in squarci di dolente umanità: li assaporiamo con completezza stasera, l'alto valore degli interpreti li rende attuali come se i secoli non fossero trascorsi e lo spazio non esistesse.

E forse è davvero così: forse, presi per incantamento, abbiamo realmente attraversato quel varco spazio-temporale che cercavamo, forse ci siamo staccati da terra e siamo approdati in qualche altrove mentre l’ascolto ci rapiva senza che opponessimo resistenza.
Di certo siamo un po’ nuovi, uscendo, ed è come se qualcosa del genio mozartiano e dei magnifici interpreti ci fosse rimasta attaccata addosso, ed è come una luccicanza… 
Forse ci basta.
Scappiamo dall’università. Accendono i motori anche i due-tre grandi bus dell’Orchestra Roma Tre e del Kosovo Philharmonic Choir.

 

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Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io

fossimo presi per incantamento…

[Dante, Rime, 9]

 

Sara Di Giuseppe - 28 marzo 2024